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Carico di sette valigione sette, Paolo Siervo arriva all’aeroporto Chavez di Lima, Perù. Da buon «dentista avventuriero», è armato di tutti i ferri del mestiere e di quella che chiama la «valigetta dell’abusivo», una sorta di studio odontoiatrico d’emergenza portatile. Pronto a raggiungere un paesino di dieci mila anime perso tra le Ande, dove si trova il resto del suo armamentario — la poltrona, il compressore e l’aspiratore — fatti inviare da qualche settimana, in nave, via Panama.

Luglio 2011, Paolo Siervo è diretto verso Yungay, 2.700 metri di altitudine, fondo valle tra le due cordilleras, negra e blanca, all’ombra delle celebri punte dell’Huascarán. Un paese raso al suolo dal terremoto del 1970, che in Perù provocò oltre 90 mila vittime. Alla dogana, dopo qualche tensione, l’agente capisce che è il momento di chiudere un occhio: 42 dollari invece che 750 di gabella per gli arnesi importati, e via libera.

Per arrivare, ci vogliono dieci ore di bus. Grazie all’aiuto di Operazione Mato Grosso, Paolo ha trovato uno studio dentistico di 15 metri quadri, in una residenza di suore, sul retro della piazza centrale del paese. Le macchine se le è comprate lui, gli strumenti sono invece un regalo dell’Isi di via Pace. L’obiettivo è curare chi, altrimenti, dovrebbe fare centinaia di chilometri al giorno per otturare una carie. I primi tre giorni servono all’avviamento dello studio, con l’aiutante Chon a fare da idraulico ed elettricista, e qualche ragazzino pronto a dare una mano in cambio di un obolo. Nel 2008 Paolo era già venuto tra le popolazioni andine. Girava in jeep o in mulo per visitare i bambini dei villaggi più sperduti con l’associazione Smom (Solidarietà medico odontoiatrica nel mondo).

Ora torna per un mese all’anno, abbandonando i più delicati pazienti meneghini, per questi contadini peruviani che non vogliono neppure usare l’anestesia. «Non hanno acqua corrente — racconta Paolo —, non si lavano i denti, sono conciati per le feste». Trovare pazienti è facile: «Dopo due giorni c’era la fila. Non si lamentano mai e, finito l’intervento, ti saltano al collo e ti portano regalini». Carie, otturazioni, devitalizzazioni, soprattutto. Per 12 ore d’impegno quotidiano.

Lavorare senza far pagare chi ne ha bisogno è sempre stato nella filosofia di famiglia, giura Siervo. «Ma a fine anni Ottanta, un’elegante associazione milanese aveva raccolto 1,8 miliardi di lire per curare il colera. Senza risultati. Una cosa inaccettabile. In me scattò qualcosa. Ora curo pochi pazienti ma sono certo che serve a qualcosa ». È la risposta a chi dice che i beaux ésprits della buona borghesia meneghina non esistono più.

— Articolo pubblicato dal “Corriere della Sera”, domenica 4 dicembre 2011.

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